Mi piace paragonare il
percorso universitario che sto lentamente conducendo alla mia dedizione al
Primo Tomb Raider. È stato il mio primo videogioco e, tuttora, i migliori
ricordi che serbo della tecnologia sono legati a Lara Croft.
Il primo livello, se ben mi
ricordo, è ambientato in una caverna, le difficoltà sono minime, familiarizzi
col gioco in totale tranquillità: è un po’ come il primo semestre, quando le
tue preoccupazioni si limitano al ricordare i nomi degli insegnanti, capire
dove sono le aule, come si arriva alla Caserma Sani, perché hai delle lezioni
alle 7 di sera e a tranquillizzare i genitori lontani. Saltiamo i passaggi
successivi, soffermiamoci al primo livello difficile, il 5°.
Allora, il 5° è il primo in
cui incontri serie difficoltà. Muori come una mosca ogni dieci passi.
Infattibile, rispetto a prima, naturalmente. È un po’ come quando sei con i
tuoi coinquilini e, improvvisamente, per settimane, a volte anche mesi, a
seconda dei casi, ti trovi senza acqua calda. È successo, lo giuro. A casa dei
miei, mai. O vivi in situazioni di degrado tali da non accorgerti che in bagno
non c’è il copriwater. Ostacoli insormontabili si frappongono tra te, la
sessione d’esame e la frequenza regolare delle lezioni.
Il primo effettivo
ostacolo, per me, è stato il frigo. Maledizione al frigo. Un frigo che, se
avessi fatto come ai tempi degli antichi, la roba mi si sarebbe conservata
meglio. Ho anche provato ad esporlo a tramontana, ma niente.
Il frigo era rigorosamente
diviso in 4 parti uguali, una per coinquilino, alle quali si aggiungeva ¼ di
cassetto per la verdura e un ripiano della porta del frigo. Il nostro frigo,
che dev’esser coetaneo della Montalcini, conservava gli alimenti a temperatura
ambiente, per cui era sicuramente meglio usarlo come terrario che non adibirlo
a luogo di conservazione delle provviste. Intanto, a suon di sommare tutti i
miei quarti sparsi, ho raggiunto una superficie da riempire pari allo Sri
Lanka. Impossibile, con un budget di spesa di meno di 20 euro settimanali. Labirintite
da supermercato, frigo perennemente vuoto.
Il frigo della mamma è
sempre pieno, è sempre pulito. Non c’è mai la muffa.
Nel nostro frigo c’era la
pestilenza. Nel mio reparto uno yogurt magro troppo schifoso per essere
mangiato, anche nei momenti più neri, un pacchetto di sottilette e una
bottiglia di tabasco. Facile capire perché, cambiata vita, abbia preso 8 chili.
Labirintite da
supermercato, maledetta almeno quanto il frigo. Il frigo della mamma ti
sorprende sempre con qualcosa di oltremodo sfizioso. Gli avanzi non esistono,
la frutta non si decompone, le pareti non sono verdi e appiccicose, c’è sempre
il prosciutto e la maionese. Nel frigo dello studente medio, in periodi di
prosperità, ci sono birre e pane in cassetta. A volte, le chiavi di casa
dell’ultimo rientrato. Troppo spesso, colonie di parameci. A cadenza
bimestrale, avanzi di fast food. Non so se abbiate mai provato a riscaldare
patate fritte avanzate da qualche cena trasgressiva. Non fatelo. Mai. Lasciate
che ci pensino i parameci.
Come si fa, dico io, a
studiare voltapervolta con il peso sulla coscienza della vacuità della tua
parte di frigo? Impossibile.
Ho detto vacuità, chissà
dove l’ho imparato. Comunque, se non sapete cos’è l’horror vacui, vi consiglio
di aprire il mio frigo, tuttora.
Incredibilmente, poi, il
periodo di prosperità economica non coincide mai con la sessione d’esame, cosa
da un lato positiva, perché accorda mooooltissimo tempo libero allo studente,
teoricamente investibile in studio di alfieriana e leopardiana memoria. I
risparmi vengono liquidati in una sera, al grido “un’altroggìro! Da domani
clausura!”. Sull’estratto conto ti esce gatto Silvestro. Ma i libri ce li hai,
fra stenti e privazioni, si potrebbe studiare. C’è il frigo, però: è lì, ti
guarda, si mette in contatto telepatico con te, si insinua tra le opere minori
di Cervantes e la filologia romanza. Se ne frega della grammatica storica,
della linguistica e della poetica di Aristotele.
Studio. Mi alzo. Contemplo
il frigo vuoto. Apro. È vuoto sul serio. Chiudo. Sospiro. Mi illumino. Riapro.
È vuoto. Chiudo. Ghigno. Sarà mia, quella mozzarella? Bava. Esame di coscienza.
Libro. Pensiero fisso della mozzarella. Manuale-evidenziatore-riassuntino.
Oddio, quella mozzarella. Finisco il capitolo e ceno. Mamma mia, mozzarella,
olio e sale, speriamo che mi prestino dei crackers.
Ad libitum nei giorni
seguenti.
“Signorina, non le posso
dare più di 23”.
Ti odio,
frigorifero.
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